- APPUNTI
- MEDIAZIONE LINGUISTICA E CULTURALE
- LETTERATURA E CULTURA DELL'ITALIA CONTEMPORANEA
Letteratura e Cultura dell'Italia Contemporanea:
Gli appunti descrivono, nella prima parte, la vita e le opere di Walter Benjamin, Eric Auerbach, Antonio Gramsci, Vittorio Spinazzola, Jean-Paul Sartre, Pierre Bourdieu, Ian Watt - autori contenuti nel libro ''CRITICA, LETTERATURA E SOCIETA''' di Gianni Turchetta. Subito dopo vi è la descrizione della storia italiana del secondo '900, per passare in particolare poi alla figura dell'intellettuale e di Pierpaolo Pasolini, dove vengono analizzati non solo gli eventi principali e le caratteristiche, bensì anche il film ''ACCATTONE'', il cortometraggio ''LA RICOTTA'', i libri ''SCRITTI CORSARI'' e ''LETTERE LUTERANE'', e il filmato ''SABAUDIA''. Vi si trova infine un'analisi approfondita del cortometraggio ''IL POLLO RUSPANTE'' di Ugo Gregoretti, del libro ''LO SBARBATO'' di Umberto Simonetta e del libro ''TEMPI STRETTI'' di Ottiero Ottieri.
Dettagli appunto:
- Autore: Arianna Perozzo
- Università: Università degli Studi di Milano
- Facoltà: Mediazione Linguistica e Culturale
- Esame: Letteratura e Cultura dell'Italia Contemporanea
- Docente: Luca Daino
Questa è solo un’anteprima: 12 pagine mostrate su 61 totali. Registrati e scarica gratis il documento.
Letteratura e Cultura dell'Italia Contemporanea Appunti di Arianna Perozzo Università degli Studi di Milano Facoltà: Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale Corso di Laurea in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale Esame: Letteratura e Cultura dell'Italia Contemporanea Docente: Luca Daino A.A. 2021/2022LETTERATURA E CULTURA DELL’ITALIA CONTEMPORANEA Walter Benjamin (1892-1940) Come Gramsci, visse relativamente poco. Tedesco, appartenente ad una famiglia di buona borghesia berlinese, marxista e, pur non essendo credente, risultava come ebreo (religione di famiglia). Dovette lasciare la Germania, prima si recò a Parigi e poi, dopo l’invasione nazista di Parigi del 1940, fu costretto a fuggire negli Stati Uniti. Raggiunge, con un gruppo di conoscenti, il confine con la Spagna (da dove partivano le navi). In Spagna, al tempo sotto il controllo di Francisco Franco, le forze spagnole catturano Benjamin e i suoi compagni. Aveva con sé una droga che prende in una quantità sufficiente per darsi alla morte (i suoi compagni verranno rilasciati la mattina seguente). Benjamin non solo ha scritto molto, ma ha scritto anche molte cose diverse da loro: sociologia, critica letteraria, filosofia. Le premesse intellettuali del lavoro di Benjamin sono marxismo e ebraismo: - Il marxismo di Benjamin è un marxismo moderno, che pone particolare attenzione sulla città: la grande sfida del filosofo era scrivere un grande volume sulla Parigi ottocentesca. - L’ebraismo di un ateo: tendenza alla totalità in ambito religioso. In Benjamin c’è una tendenza ad aprire al massimo il ventaglio della comprensione (città come universo autonomo). Si parla di marxismo messianico, per l’aspirazione ermeneutica alla comprensione totale. La scuola di Francoforte fu un dipartimento universitario di studi sociologici che si era dato lo scopo di aggiornare il marxismo, innestando sulla visione dei mondo del materialismo storico le discipline che stavano nascendo con piglio scientifico al tempo (scienze umane). Furono gli ultimi rappresentanti di una grande scuola tedesca interdisciplinare (Theodor Adorno, ad esempio, era musicologo). Benjamin ebbe con l’università un percorso piuttosto complicato: fu bocciato all’abilitazione all’insegnamento e tenuto ai margini dell’accademia presentando un testo barocco oggi considerato pietra miliare indelebile. 1 Benjamin lavora in anni in cui le società avanzate stavano subendo il cambiamento del boom economico: nascono le metropoli, si impone il commercio internazionale. Benjamin sostiene che l’aspirazione alla totalità è raggiungibile partendo solamente da un’analisi accuratissima dei particolari, che vanno letti come sintomo ed espressione della totalità a cui appartengono: si parla perciò di dettagli significanti, di allegoria. Si parte perciò da un particolare concreto, accettando la sfida dell’analisi specialistica e del balzo intellettuale per una comprensione più vasta. A tutto ciò, è legata una conseguenza che invade la scrittura di Benjamin. La sua scrittura è piaciuta molto perché si presenta in termini di ambiguità, destrutturati, che tende a descriversi a frammenti. Difficilmente Benjamin mise insieme un libro compiuto dall’inizio alla fine, piuttosto troviamo libri strutturati per fascinosi frammenti. Scrisse un trattatelo organico, del 1936, pubblicato sulla rivista della Scuola di Francoforte, intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Benjamin si occupa dello statuto delle arti figurative in un contesto (dei primi decenni del Novecento) in cui l’avanzamento tecnico aveva permesso di riprodurre in serie migliaia di immagini delle opere d’arte che in precedenza esistevano soltanto in loco (museo, navata di chiesa, …) in una versione unica. Le riproduzioni erano di pittori dilettanti che andavano in loco, riproducevano a mano e la distribuivano. Benjamin si occupa del ruolo che mantiene l’arte in un contesto in cui l’immagine dell’opera artistica è fruibile universalmente. D’accordo con Adorno e Holkeimer, Benjamin osserva che l’arte perde d’autenticità e unicità. Benjamin inoltre sostiene che la singola opera possiede un valore “cultuale”, assumevano valenza religiosa dalla loro unicità. Parla di aura e valore auratico. L’arte viene desacralizzata. La riproducibilità tecnica distrugge l’originalità e l’autenticità dell’opera. L’equivalente avviene nel rapporto teatro-cinema: ogni rappresentazione teatrale, sia pure avvenga in due serate successive con gli stessi protagonisti, è inevitabilmente suscettibile di mutamento, poiché è un altro evento. Il cinema, invece, registra sulla pellicola una volta per tutte la scena e non può che riprodurla in modo sempre uguale: unicità sempre mutevole contro una massificazione che prevede l’inevitabile uguaglianza di tutti gli elemento. Secondo Adorno e Holkeimer, il capitalismo, nel momento in cui “mette le mani” sull’arte, la mercifica, e l’arte mercificata smette di essere arte, perdendo la propria identità e lo statuto di mezzo artistico. Su questo, Benjamin dissente: con la riproducibilità, l’arte guadagna valore di esposizione, grazie al quale chiunque può fruire di opere artistiche. Il Benjamin critico letterario si presenta con il saggio che si intitola “Di alcuni motivi in Baudelaire” del 1939, frammento del più ampio saggio che Benjamin pensava di scrivere sulla Parigi di metà ottocento. Utilizza Baudelaire come documento unico ed esplicativo di quanto avveniva nella Parigi che stava dentro i suoi testi. Secondo Benjamin, Baudelaire ha realizzato per primo in letteratura un’arte non auratica. Benjamin muove dal presupposto che la grande sfida era fare un’arte non più auratica ma che paradossalmente continuava ad essere arte. Benjamin argomenta tutto questo partendo da un singolo frammento. Si tratta di un dettaglio significante presente nella raccolta “I fiori del male” di Baudelaire intitolato “Ad una passante”. Baudelaire fu il primo a introiettare dentro la sua scrittura le novità radicali della nascente modernità. 2L’elemento che fa da connessione è il concetto di “choc”. Benjamin sostiene che il concetto di “choc metropolitano” è l’elemento che contraddistingue la vita così come stava diventando in Europa con la nascita della metropoli. Benjamin, come riprova della lettura della vita schizofrenica e disumana della città, si appoggia a Friedrich Engels (che descrive la Londra della seconda metà dell’ottocento con l’occhio di chi arrivi dal passato e veda con distacco quello che avviene) e a Edgar Allan Poe. Il libro di Engels da cui Benjamin ricava la citazione si intitola “Situazione della classi lavoratrici in Inghilterra”. Lo sviluppo economico è costata ai londinesi la parte più umana di sé. Lo shock della modernità porta ad una disumanizzazione a ciò che prima aveva tutt’altro volto. Engels si aspetterebbe lo scambio e l’interazione, non il reciproco anonimato e addirittura fastidio. Edgar Allan Poe mette accento sul fastidio che ci si potrebbe dare. La malattia serve a creare uno stacco dalla realtà quotidiana, assuefazione al fatto che le cose stiano così. L’uomo malato, attraverso la malattia e l’isolamento, ha recuperato uno sguardo umano sul mondo e, una volta tornato, resta stupito di quello che vede. Questo è l’effetto della città sui suoi abitatori, lo shock metropolitano. Nella poesia di Baudelaire, troviamo un’Io lirico. Per strada, improvvisamente vede una donna giovane e se ne innamora. Non sa chi sia, la folla gliel’ha portata. Cosi come l’anonimato cittadino gli ha fornito la visione, allo stesso modo glielo porta via. La tesi di Benjamin è che in questo testo ci sia la prova di un’arte non auratica perché riproduce al suo interno gli shock che contraddistinguono la modernità metropolitana. Secondo Benjamin, sono tre i livelli nei quali il testo denuncia lo shock: ambientale, tematico e formale. 1. Ambientale: la folla non è esplicitamente chiamata in causa, ma si parla di strada con il suo clamore. La folla è determinante e data per scontata, ma è motore della micronarrazione presente. Lo shock consisterebbe nell’improvvisa apparizione che va ad inserirsi nella lista di shock con i quali il cittadino si incontra nel momento in cui esce dalla soglia di casa. La poesia riproduce la vasta massa di stimoli che il cittadino deve affrontare. 2. Tematico: shock che il testo crea nei lettori di poesia di metà ottocento. Lo shock nasce dal cozzare di impressioni opposte: il tema amoroso è trattato in maniera non tradizionale, in maniera inedita è amore all’ultimo sguardo. Il primo e l’ultimo sguardo coincidono nel caos della metropoli. La reazione dell’Io lirico che prova l’amore è diventare un ossesso istupidendosi. 3. Stilistico-formale: dal punto di vista metrico e prosodico, troviamo un sonetto in cui numero diversi, numero di sillabe e accenti per verso e le rime stanno tutte precisamente al loro posto: siamo di fronte ad una tradizionalità più schietta. La tradizionalità si va scontrare con un lessico che avrebbe sorpreso il lettore ottocentesco. Sul piano del lessico, la tradizionalità è sporcata da termini che nulla hanno di tradizionale. Sul piano formale la poesia restituisce uno shock al lettore paragonabile allo shock che si incontra per strada. Baudelaire rifiuta l’arte tradizionale perché decide di portare la poesia all’altezza dei tempi nuovi, accettando la sfida di costruire un edificio poetico con materiale che nulla di poetico 3aveva. La modernità, con i suoi ritmi frenetici e traumi psicologici, è nemica della poesia, che vive di lentezza, di riflessione e rilettura. Baudelaire, ci riuscì per primo, mescolando il materiale della modernità con il materiale della tradizione, inventando qualcosa di radicalmente nuovo in cui la modernità diventava poetica poiché veniva immessa in cornici tradizionali. Per Benjamin, questo affondare le radici nella tradizione per fare qualcosa di nuovo fa di Baudelaire il primo poeta della modernità. Eric Auerbach (1892-1957) Auerbach era coetaneo di Walter Benjamin, ma anche ha avuto una storia simile: anche lui ebreo e tedesco, dovette fuggire dall’Europa. Passo gli anni di guerra a Istanbul, Turchia. Anche Auerbach ci ha lasciato esempi eccellenti di critica sociologica della letteratura. È considerato uno dei massimi rappresentati della critica stilistica, ossia critica letteraria che analizza primariamente le peculiarità stilistiche dei testi letterari per individuare i tratti caratterizzanti dell’agire letterario di autori o movimenti. Auerbach fa un’analisi formale molto tecnica e specialistica eppure, a partire da questa analisi, arriva a considerazioni extra testuali ed extra letterarie, con un metodo denominato “metodo dei cerchi concentrici”. Il primo cerchio può rappresentare l’analisi testuale in senso stilistico e formale, e i successivi cerchi, allargandosi, arrivano ad un ragionamento sulla poetica dell’autore (concezione della letteratura). Successivamente, si può uscire dalla produzione del singolo autore per vedere in che modo certe scelte stilistiche e poetiche si collocano dentro il contesto della contemporaneità. Auerbach segue i cerchi concentrici anche oltre i confini della letteratura, arrivando a chiedersi cosa significhi il modo in cui vengono scritti i testi, le tempistiche e la visione del mondo che ne deriva dalla lettura dei testi. Alla base di ciò troviamo il materialismo storico, con l’idea che dentro un determinato contesto un certo gesto sia in qualche modo parte di un’unità profonda. Dietro al metodo di Auerbach troviamo il marxismo dietro i termini che utilizza per la visone del mondo: tutti possiedono un’ideologia, che compare nei gesti che le persone compiono, rendendo possibile lo studio di certe scelte sulla base di una data struttura. Auerbach si muove contemporaneamente a Benjamin su sponde metodologiche del tutto simili: anche lui individua dei dettagli significanti, dai quali deriva un’identità stilistica. Anche per Auerbach è impossibile arrivare ad una lettura della totalità: con l’escamotage dei dettagli, restituisce il ritratto di un soggetto. L’opera più famosa di Auerbach è intitolata “Mimesis”, opera del 1946, che arriva in Italia nel 1956 con Einaudi in due volumi. Il sottotitolo con cui è stato tradotto in Italia è “il realismo nella letteratura occidentale”. La traduzione letteraria esatta dal tedesco è “la realtà rappresentata della letteratura occidentale”. “Mimesis” studia le varie modalità con cui la letteratura occidentale ha cercato di rappresentare la realtà. Auerbach parte da Omero e arriva fino a Virginia Woolf, passando per le commedie latine di Plauto, i Vangeli, Dante, Boccaccio, Shakespeare, arrivando al realismo francese di Balzac e Zola, terminando il viaggio ai modernisti. Auerbach intendeva comprendere in che modo la realtà era stata rappresentata nella letteratura occidentale. Il libro fu scritto durante la seconda guerra mondiale: Auerbach raccontò che non sarebbe mai riuscito a scrivere l’opera se non si fosse trovato in una posizione così scarsamente fornita d’opere letterarie come ai tempi della fuga ad Istanbul. Altro grande escamotage sono i dettagli significanti. Auerbach dice di aver adottato il metodo dei “campioni casuali”: sceglie in modo casuale dei passi di certe opere, analizzandoli solamente. Analizza gli ingredienti linguistici e stilistici e, partendo dall’analisi di questi ingredienti formali, cerca di 4capire come la letteratura nelle varie epoche ha rappresentato il reale e quale mondo si potesse scorgere dietro certe scelte. Il primo ostacolo è il realismo: per Auerbach la volontà di realismo è una volontà sistematica di istituire sulla pagine in modo serio un volto riconoscibile di certe porzioni di mondo. In quest’ottica, il romanzo realista francese, è risultato di un grandissimo percorso che ha preso il via dalle origini della letteratura. Per Auerbach si ha realismo quando non si rispettano le regole della retorica classica: queste prevedevano che uno stile serio o addirittura aulico andava riservato ad argomenti elevati e a fatti di grandi personaggi; la banalità del quotidiano, invece, non poteva essere oggetto di un’opera seria, potevano venire rappresentate con uno stile altrettanto basso. I vangeli del cristianesimo giocano un ruolo importante nel discorso di Auerbach: una materia altissima come la vita e morte del figlio di Dio è trattata insieme ad una materia umile con l’utilizzo della medesima scrittura e stile. In un testo come questo avviene in maniera clamorosa una contestazione delle regole classiche dello stile. “Il calzerotto marrone” si trova nell’ultimo capitolo di “Mimesis”, il passo antologizzato è di Virginia Woolf, uno dei principali autori del modernismo anglosassone. Il modernismo veniva considerato come superamento per opposizione del grande romanzo realista francese dell’ottocento. Vengono considerati testi anti-realisti, il racconto è scarso e i pensieri dei personaggi ne fanno da padrone. Auerbach decide di chiudere la sua opera considerando i modernisti il grande punto d’arrivo della letteratura occidentale alla ricerca della rappresentazione della realtà. L’opera analizzata da Auerbach è “Gita al faro” del 1927. Auerbach sceglie un momento nel quale la protagonista del romanzo, Helen Ramsay, sta misurando la misura corretta del calzerotto. La protagonista e il marito sono soliti passare le vacanze estive in una casa in affitto in Scozia, vicina ad un faro. Vuole portare in regalo al figlio del guardiano del faro i calzerotti. Misurando sulla gamba del proprio figlio James (di età e statura simile al figlio del guardiano), verifica se il calzerotto è di misura corretta. Viene rappresentata una realtà quotidiana fatta di oggetti e situazioni banali, il tutto offerto al lettore con un tono medio. Tutto questo Auerbach lo chiama “trionfo dell’insignificante”. La realtà non è descritta da un narratore, troviamo in più i pensieri della signora Ramsey. Non ci si limita a restituire i pensieri della signora Ramsey, troviamo anche i pensieri degli altri personaggi che appartengono alla scena, e talvolta anche pensieri di personaggi non rappresentati nella scena. Auerbach chiama questa tecnica “rappresentazione della coscienza pluripersonale”. Nei modernisti i pensieri prendono il sopravvento e, soprattutto, la rappresentazione avviene in modo disordinato e libero. Il narratore non fa più il suo lavoro con forza e chiarezza che lo aveva contraddistinto nelle opere precedenti. La realtà sovrasta la possibilità del narratore di tenere l’ordine nella narrazione. La debolezza del narratore genera nel lettore una sensazione di sballottamento. Il narratore in “Gita al faro” è esterno ma non intrusivo, la voce è astratta e non appartiene alla storia raccontata. Si limita a riportare pensieri e dialoghi, venendo meno al suo ruolo di mediatore e chiarificatore. Un’altra conseguenza della gestione della narrazione dei modernisti è il procedere “a salti” e a rallentatore nella narrazione, a causa della scarsezza dei fatti da raccontare. Si parla di sfasatura tra tempo esteriore e tempo interiore, quest’ultimo molto dilatato. 5Auerbach ricava un’ulteriore conseguenza: Woolf e altri narratori modernisti non sono meno realisti dei loro predecessori. La vita è solamente un insieme di fatti banali, con la sensazione di un tempo che scorre lentamente in modo ripetitivo e banale, assieme ad una marea di pensieri oggettivi che poco possono importare. Il rapporto reale tra pensiero e fatti è molto più vicino al pensiero dei modernisti. Auerbach disegna l’ulteriore cerchio con il quale uscire dalla letteratura per inserire il testo prodotto dai modernisti come emblematico di una certa condizione storico-sociale. Le domande che Auerbach si fa posso essere: 1. Cosa significa che gli scrittori modernisti hanno abbandonato l’idea di seguire il personaggio attraverso un’evoluzione? 1. Perché i modernisti si limitano a fare meticolosi zoom su pochi momenti casuali ed insignificanti della vita dei personaggi? 2. Che cosa significa rinunciare alla funzione ordinatrice del narratore? Auerbach si risponde dicendo che tutto ciò è una reazione quasi profetica, una presa di posizione degli scrittori in quanto tali che reagiscono a ciò che sta succedendo intorno a loro. La realtà era diventata infinitamente più complicata: gli scrittori percepiscono l’impossibilità di restituire una realtà radicalmente cambiata negli ultimi anni (seconda rivoluzione industriale, guerre mondiali, teorie scientifiche es. della relatività). Nelle opere viene denunciata l’impossibilità di produrre dei quadri sintetici e oggettivi della realtà che gli autori stanno vivendo. Gli scrittori ripropongo la piccola e banale realtà nella quale siamo immersi sulla base di una soggettività pensante: restano impressioni individuale e piccoli dati della realtà (i grandi panorami sono diventati troppo complessi e ingestibili). In questo modo vengono valorizzati i gesti della gente comune e il lettore può vedere rispecchiata la propria vita in rappresentazioni banali. Auerbach, infine, riconosce nel metodo dei “campioni casuali” (per cui stringe l’attenzione a lungo su una piccola porzione della realtà) una somiglianza al metodo che utilizzano i modernisti. Antonio Gramsci Intellettuale: colui che non è coinvolto nella commutazione capitalistica del capitale, non è coinvolto nel settore produttivo, non cerca di fare soldi attraverso degli investimenti —> habitat prediletto: sovrastrutture (arte, scrittura). Per gli intellettuali militanti: opinionismo politico. L’intellettuale agisce a livello dell’ideologia. Gramsci insiste sul ruolo che gli intellettuali devono avere in una società a proposto delle idee che vi circolano. Rapporto Gramsci-Marx: Marx ci ha offe la base teorica di una concezione materialistica della storia. Gramsci offre un esempio applicativo della teoria marxiana. Gramsci muore a Roma di malattia in un ospedale militare durante il periodo fascista (1937). Gramsci è riconosciuto da Mussolini uno dei nemici più pericolosi, incarcerandolo. Gramsci si trasferisce a Torino, studia lettere, si laurea in glottologia. Scopre fabbriche, operai, di conseguenza il marxismo. Torino città nella quale fu fondata la FIAT. Gramsci entra nel partito socialista (partito riformista, moderati), fondato nel 1892. Il materialismo storico è chiamato “filosofia della prassi" da Gramsci per non far riconoscere l’ideologia marxiana. Nel 1921 Gramsci abbandona il partito socialista, fondando, assieme ad Amedeo Bordiga a Livorno, il partito comunista italiano, nato da una scissione dal partito socialista. Nel 1924 fonda “L’Unità”. Gramsci passò in carcere buona parte della sua vita. Gramsci è principalmente ricordato per i “Quaderni del carcere”, vastissima massa di appunti preparatori per una colossale opera progettata da Gramsci, una storia recente e lettura del presente dell’Italia dal punto di vista di tutte 6le scienze umane (tranne la psicologia), completando 32 quaderni (circa 4000 pagine a stampa). Piero Sraffa, economista e amico di Gramsci, procurò quaderni, riviste, libri con i quali Gramsci potè rimanere aggiornato. Lo stesso Sraffa salvò i quaderni, conservandoli fino alla caduta del fascismo. Nell’immediato secondo dopoguerra vennero pubblicati. Prima edizione (1948-51) in 6 volumi. Nel 1975 venne pubblicata un’edizione ampliata. 2 volumi riguardano temi di letteratura: “Letteratura e vita nazionale” e “Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura”. Gramsci considera la letteratura un elemento del mondo. Evento storico fondamentale: rivoluzione russa (1917). Gramsci elabora un’interpretazione del marxismo. La rivoluzione deve essere preparata con una tenace lotta democratica, il cui obiettivo è la rivoluzione raggiunta con la costruzione di un blocco coeso, poco a poco andato convincendosi dell’utilità della rivoluzione stessa. Gramsci pensa che la classe piccolo borghese (nemica del comunismo), oltre al proletariato, possano entrare a far parte del blocco sociale convito (comunismo>capitalismo). In Russia una piccola avanguardia di intellettuali aveva preso il potere conquistando il Palazzo d’Inverno di San Pietroburgo, al tempo Pietrogrado, al contrario di quando credeva Gramsci. Gramsci costruisce il consenso con la pedagogia delle masse, far arrivare alle persone la comprensione reale della verità dei fatti. Compito affidato agli intellettuali (artisti, scrittori, giornalisti). Chiede agli intellettuali di rielaborare le ideologie marxiste per far si che possa essere capita dal popolo, al tempo in larga parte analfabeta. Presupposto teorico: tutti gli uomini sono potenzialmente intellettuali, tutti possediamo un’ideologia, che struttura la nostra forma mentis. Gramsci studia gli intellettuali. Individua 2 tipologie: - tradizionali o cosmopoliti (tipicamente italiana), perché nella tradizione italiana sono sempre stati i più numerosi. Costituivano una casta elitaria, i cui componenti dialogavano molto a livello internazionale e poco a livello nazionale. - organici, coloro che si riconoscono in una determinata classe sociale, facendone propri i bisogni, progetti e ideali. Gramsci auspica che ci siano persone colte che diventassero intellettuali progressisti capaci di comprendere le esigenze della classe popolare, creando una cultura comprensibile al popolo ma comunque di ottimo livello, chiamandola “cultura nazional-popolare”. Gramsci riserva un ruolo particolarmente importante alla letteratura nella costruzione della cultura nazional-popolare. Secondo Gramsci la letteratura ha una peculiarità decisiva, ossia si avvicina quanto più possibile al popolo, usando come proprio materiale la lingua naturale, la lingua usata tutti i giorni. La letteratura ha un carattere spiccatamente nazionale ma anche popolare, perché è la lingua degli italiani. Gramsci studia sistematicamente la paraletteratura, la letteratura per il popolo (letteratura di talmente infimo livello che non poteva essere accostata alla letteratura). Studia i “romanzi d’appendice”, romanzi che uscivano a puntate sui giornali, collocati perlopiù nella parte bassa della pagina di giornale. È una letteratura che aiuta il popolo a fare critica dell’ideologia. Gramsci osserva che in Italia mancavano romanzi d’appendice che interessassero al popolo. Gramsci sostiene che, mancando una classe di letterati che possa essere organica con il popolo, non esisteva un romanzo che amalgamasse qualità e fruibilità, che si trovava invece nei romanzi francesi. Gramsci ci fornisce un abbozzo di categorizzazione di cultura popolare. Individua 7 tipi di romanzi: - ideologico-politico: di tendenza democratica. (I miserabili di Victor Hugo) - Sentimentale 7- Di puro intrigo: sono incentrati su una trama che coinvolge il fruitore - Storico - Poliziesco: Sherlock Holmes, oggi i gialli di Camilleri - Tenebroso: thriller o di paura (horror) - Scientifico, geografico: Ventimila leghe sotto i mari Gramsci segnala alla fine del suo studio che nessuno di questi romanzi ha avuto in Italia uno scrittore di livello; perciò, il popolo non ha potuto fruirne. Vittorio Spinazzola Si abbandonano i grandi discorsi filosofici e politici. Spinazzola è uno specialista della letteratura, docente universitario presso la Statale di Milano. Stretto collegamento tra Spinazzola e Gramsci. Spinazzola è il primo che recupera l’indicazione quasi profetica di Gramsci, recuperandone l’eredità. Spinazzola muove dal presupposto che l’accento vada messo sui lettori (rapporto triadico: autore, testo, lettore). Spinazzola crede che tutti sono diventati potenzialmente dei lettori. La letteratura diventa un esercizio attraverso il quale si cerca di avere una gratificazione estetica. La lettura si può interrompere se non si è gratificati. Nel 1993, in “Come un romanzo”, Daniel Pennac ribadisce il concetto espresso da Spinazzola, creando ulteriore scalpore. Elemento che lega Spinazzola e Gramsci è il ruolo degli intellettuali. Per Spinazzola sono fondamentali gli intellettuali che agiscono da critici letterari. Dovrebbero smettere di dedicarsi solamente ai libri “d’alta scuola”, ma dovrebbero svolgere una funzione fondamentale di collegamento tra opere e lettori, orientando questi ultimi. Il critico deve capire cosa piace alla gente, quali sono i loro desideri. L’espansione del pubblico della letteratura novecentesca è di causa economica. Altro elemento legato al benessere economico novecentesco è la scolarizzazione. Nel 1962 avvenne l’istituzione delle scuole medie, che diventano obbligatorie. Spinazzola osserva che in Italia avviene un ampliamento del pubblico letterario e della produzione letteraria legata direttamente al mercato letterario. Nel secondo novecento la critica letteraria deve cambiare “metodo di lavoro”, l’istituzione letteraria ha infatti cambiato volto. Più lettori, maggior offerta. La reazione dei critici letterari ha visto questo fenomeno di ampliamento come una catastrofe. Spinazzola parla di “catastrofismo apocalittico”, la letteratura è ora costituita da prodotti di ogni sorta, medi o medio-bassa. Si denuncia lo scadimento della qualità e dell’esperienza letteraria, si è imposta una produzione letteraria mediocre sintonizzata alle più pigre attese del pubblico massificato. Spinazzola osserva invece che la realtà letteraria si è finalmente stratificata e differenziata. La vita culturale del paese, invece che essere ristretta ad un’élite insignificante, ora è aperta a tutti, si ha un arricchimento orizzontale del panorama letterario. Ogni esperienza estetica ha il suo statuto di legittimità (ha una sua qualità). Spinazzola osserva che dentro la persona stessa si hanno momenti diversi nei quali si ha una fruizione estetica diversa (si può leggere un classico la mattina come un fumetto nel pomeriggio). Spinazzola non fa altro che spingere alla relativizzazione dei valori estetici, respingendo la precedente gerarchia di rigida autorevolezza, prendendo atto della democratizzazione della istituzione letteraria. L’habitat naturale della democratizzazione è la prosa romanzesca, il romanzo diventa il genere egemone della modernità. 8 Spinazzola spinge sul fatto che esista sempre una strategia nell’autore, che diventa una forma di scrittura, attraverso la quale cerca di raggiungere un certo target di pubblico. Gli autori devono nuovamente conquistare nuove fette del pubblico. Il discorso parte da d’Annunzio. Vuole dare ai lettori la sensazione di compiere un esperienza estetica di grande qualità. D’annunzio ha apparentemente scritto opere riservate ad un’élite elevata, falsa difficoltà. Il vero obiettivo di d’Annunzio era quello di raggiungere un pubblico vasto, offrendo l’illusione di sentirsi chiamati a partecipare ad una rara schiera di spiriti eletti capati ci apprezzare tali opere elette. Altrettanto provocatoria è la lettura sul futurismo. Spinazzola osserva volontà di provocare il pubblico medio, per conquistarlo e coinvolgerlo, non per spaventarlo, pura opera di spettacolarizzazione. Spinazzola riconosce la ripresa dell’aristocraticismo castale della letteratura nell’Italia post bellica, anni 20/30. In questi anni la prosa d’arte la fa da padrona, gli scrittori spesso abbandonano la prosa romanzesca per dedicarsi a scritti più brevi come racconti e prosa d’arte, dove importa il linguaggio elaborato e raffinati. Spinazzola, negli anni del fascismo, osserva che il regime ha in mente una strategia di popolarizzazione della letteratura, con esaltazione al regime. Negli anni del fascismo nasce anche la fumettistica italiana. Fase neorealista post fascista. Si apre nel 1943 con il film “ossessione” di Luchino Visconti e si chiude nel 1955 con il romanzo “Metello” di Vasco Pratolini. Torna il romanzo e l’impegno progressista, ma il nuovo romanzo neorealista (vicino ai settori del partito comunista) naufraga precocemente, la qualità dei prodotti è spinta da binari opposti. Negli anni 60, il fenomeno letterario più famoso è la neo avanguardia, nata per condannare il neorealismo, una critica “da sinistra”. Il gruppo 63 vuole rovesciare il tavolo della letteratura italiana, colpendo e scompaginando le strutture del romanzo. Spinazzola pensa che siano intellettuali umanisti spaventati dalla massificazione, condannando tutto ciò che è popolare, alzando l’asticella dello sperimentalismo. I movimenti giovanili del 1968 non erano interessati a quel tipo di letteratura. I movimenti vogliono subordinare lo sperimentalismo letterario all’ideologia. Spinazzola osserva che si ricava una spinta dei testi letterari ad inserire nei testi degli autori un grado più alto di oralità, il romanzo si vede scendere verso la volgarità e il parlato colorito. Gli anni 80 sono in Italia gli anni della post modernità, Spinazzola riconosce che da allora viene ad imporsi il gusto medio dei lettori, con la vittoria dell’editoria e degli scrittori che “inseguono” i gusti dei lettori non specialisti di letteratura. Si completa così la ristrutturazione dei generi letterari e dell’istituzione letteraria. La contemporaneità è la fase successiva affrontata da Spinazzola. Propone un ritratto dell’istituzione letteraria tramite: - le opere - Il pubblico che le fruisce Fornisce quattro categorie, suddivide la produzione letteraria. I quattro livelli non costituiscono una gerarchia di valori, ma di complessità tecnica, le più complicate al livello più alto. I prodotti collocabili ai gradi inferiori sono fruibili ai lettori delle fasce superiori: 3. Letteratura avanguardistico-sperimentale (iperletteratura). Alta complessità formale con forte tendenza a sperimentare, conta l’imperativo del “nuovo”. Lo scrittore vuole essere originale. Troviamo opere rivolte ad un pubblico d’élite. Opere: tutta la poesia, prosatori particolarmente originali come Carlo Emilio Gadda (“La condizione del dolore”), Tommaso Landolfi, Antonio Delfini e Giorgio Manganelli. 94. Letteratura istituzionale. Testi che si rivolgono ad un pubblico scolarizzato ma non specialista della letteratura. Testi che rispondono ad una letteratura famigliare. Testi con i quali si famigliarizza grazie alla scuola. Caratterizzati da minore sperimentazione, si riconosce una stabilità di appartenenza ad un genere letterario. Modernità settecentesca. Nel novecento, romanzi storici, psicologici, di formazione. Autori: Primo Levi, Leonardo Sciascia, Umberto Eco (“Il nome della rosa”), Alberto Moravia (“La noia”), Elsa Morante (“L’isola di Arturo”). 5. Letteratura d’intrattenimento. Pubblico ampio, i modelli del genere letterario sono rispettati e talvolta semplificati. Romanzo giallo, noire, comici, erotici. Conta il pensiero del lettore, meno il nome dell’autore. Autori: Stefano Benni, Piero Chiara, Sottero e Lucentini. Romanzo di genere di buona qualità, il national-popolare che pensava Gramsci. In questa categoria Spinazzola inserisce biografie (di Napoleone, JFK) e testi con lo scopo di intrattenimento ma anche di insegnamento, come i libri che scrivono i giornalisti (Travaglio, Vespa). 6. Letteratura marginale o paraletteratura. Peculiarità: viene venduta in edicola. Fumetto, fotoromanzo (personaggi fotografati con fumetti/didascalia), romanzo rosa, romanzo pornografico, romanzo western. Opere ripetitive, nessuna originalità (l’autore non c’è, firma con uno pseudonimo). Letteratura totalmente rifiutata dalla critica letteraria. Non regna un’uniformità amorfa e statica. Spinazzola chiede al critico di farsi garante dell’orientamento dei lettori perché così è possibile orientare il pubblico. Jean-Paul Sartre (1905-1980) Emblema dell’intellettuale autorevole e d’estrazione borghese che s’assume la responsabilità di prendere parola per tutti a proposito di temi d’attualità. Si può dire consanguineo con Pasolini, rappresentano gli intellettuali più esposti e seguiti del secondo ‘900. Vinse il Nobel per la letteratura nel 1964, rifiutato (1 milione di euro come premio) per dei motivi quasi assurdi: “non voglio istituzionalizzare la mia figura, voglio rimanere un’intellettuale che sta al margine” non voleva smettere di essere una coscienza inquieta, non potendo più essere critico sulla società. Scrisse romanzi, drammaturgie, è stato critico letterario, teorico della letteratura, ma è stato innanzitutto filosofo. Filosofo esistenzialista in una prima fase, dalla fine della seconda guerra mondiale fu influenzato dal marxismo. Søren Kierkegaard e Fëdor Dostoevskij fondatori primo novecenteschi dell’esistenzialismo. La nausea: uno dei romanzi scritti da Sartre. Roquentin protagonista del romanzo, il problema è dare un senso alla propria presenza nel mondo. La filosofia esistenzialista ragiona sul ruolo dell’Io nel mondo. Singolo ed individuo e il suo stare al mondo sono i protagonisti della filosofia esistenzialista. Pilastri dell’esistenzialismo: - Irriducibile singolarità dell’individuo - Non senso dell’esistenza Domande esistenzialiste: che ci faccio in vita? L’esistenzialismo risponde che nessuno ha chiesto di nascere. Tutta la cornice dell’esistenza è un perimetro di “non senso”. L’esistenzialismo non prende la via del nichilismo, bensì il singolo è caricato della responsabilità di agire e scegliere per riempire di senso il contenitore vuoto che chiamiamo vita. Il singolo è sia vittima sia eroe, perché sta a lui dare senso a ciò che senso non ha. “Che cos’è la letteratura?” Del 1947, scritto diviso in 3 parti: - Che cos’è scrivere? 10- Perché si scrive? - Per chi si scrive? Sartre propone una teoria della conoscenza, come l’uomo interagisce con cosa gli sta intorno. La teoria della conoscenza mette l’accento sulla coscienza soggettiva per fornire significato alla realtà esterna. Sartre presuppone che la realtà esterna sia inerte, nella sua “datità” (dato d’esistenza), è la coscienza individuale che stabilisce legami all’interno dell’in sé e crea significati. Sartre chiama la realtà esteriore “in sé”, gli elementi della realtà non “si danno”, la realtà è opaca. La coscienza individuale Sartre la chiama “per sé”, la coscienza attraversa il reale, la coscienza rivela l’essere. La realtà esteriore non è dato interessante perché non è dato oggettivo, la realtà esterna non esiste, la realtà che esiste è solo quella che ciascuno di noi percepisce. Il per sé è rivelante nei confronti dell’in sé. Un grosso momento di infelicità è non essere creatore di quegli elementi dei quali l’essere rivela l’aspetto. Il senso di quegli oggetti è creato dalla coscienza, ma gli oggetti stessi non sono creazione della coscienza. Perché si scrive secondo Sartre? L’uomo sente il bisogno di scrivere perché rivelante nel senso dell’essere. Risponde al bisogno primario di creare qualcosa che prima non c’era. Roquentin scopre che l’unica modo per dare senso alla vita è stare sulla strada della creazione, che non deve essere per forza artistica. L’obiettivo è assumersi la responsabilità della propria esistenza, diventando creatore. A questo punto, diventiamo essenziali nei confronti dell’oggetto da noi creato. Nel momento in cui io creo un oggetto, sono il Dio di quell’oggetto, ma a questo punto non si è più rivelanti nei confronti dell’oggetto creato. Il creatore non riesce a vedere nell’oggetto se non il frutto di un procedimento, sembra al creatore potenzialmente incompiuto e modificabile, l’oggetto a chi l’ha creato non si presenta mai nella sua datità assoluta. In un’opera in cui abbiamo messo noi stessi, il creatore non può che ritrovare continuamente se stesso. Si scrive, quindi, per sentirsi creatori. Conseguenza: viene attribuito ruolo fondamentale al fruitore dell’opera d’arte. L’opera diventa l’in sé ed è rilevabile da una coscienza che non sia il creatore stesso. Per Sartre la letteratura esiste solo quando l’opera è letta da qualcuno, solo quando “la trottola è in movimento”. Arte e letteratura esistono solo se qualcuno le rivela. Essere se stessi è il peggiore smacco, si condanna alla morte una sua creazione, l’arte esiste soltanto nelle mani altrui. Sartre è un precursore dell’estetica della ricezione, che verrà “al mondo” soltanto nel 1967 con Hans Robert Jauss. L’oggetto artistico impone le sue strutture. La lettura, in quanto atto rivelativo, muta il volto del testo. Sartre dice che paradossalmente per un lettore tutto è ancora da fare perché ciascuna opera esiste soltanto all’esatto livello delle capacità del suo fruitore. In stringete coerenza con gli assunti esistenzialistici precedentemente dettati. L’opera letteraria è un appello volto al lettore, affinché possa dare vita all’opera stessa, che rimane incompiuta senza fruizione. Per chi si scrive? Per tutti. Lo scrittore offre la propria opera alla libertà creatrice di chiunque. Ogni autore però deve fare i conti con le condizioni storiche che determina il suo scrivere, che determinano di conseguenze le attese del pubblico. Si rivolge a quel pubblico che condivide con noi l’orizzonte temporale e sociale (contemporanei). Sartre dice “Le banane sono più buone consumate sul posto”, ossia i testi comunicano in maniera più immediata con i contemporanei di chi scrive. Una conseguenza per lo scrittore: se decide di essere tale deve sapere quali richieste gli vengono fatte dal suo tempo, deve inconsciamente rispondere all’idea di scrittore che il suo tempo ha. Il pubblico interviene anche prima della scrittura dell’opera, il dialogo pubblico-scrittore inizia prima. Esempio: Richard Wright, scrittore statunitense degli anni 30 del Novecento, nero. Uno scrittore nero che vive in un paese razzista non poteva che, in quanto nero, rivolgersi a chi vivesse sulla sua pelle quella condizione fondamentale che riguardava i neri in quel tempo, ossia la condizione di marginalità. Non poteva che rivolgersi ad un pubblico consenziente al suo modo di trattare certe esigenze. L’orizzonte dei possibili intervengono anche sulla sua scrittura, sapendo che il suo pubblico sarebbe stato quello dei neri, la sua scrittura non poteva che avere caratteristiche di semplicità e linearità. Persino il tono è un tono complice, perché sa che il pubblico è dalla sua parte. 11Nella contemporaneità di Sartre lo scrittore è un parassita (fattore biologico che sfrutta qualcuno per il suo sostentamento) perché non produce nulla di utile nel sistema economico, non lo si può che mantenere. Lo scrittore è nocivo per la classe dominante, riflette un’immagine della società. Vedere specchiata la propria immagine significa prendere nuova coscienza dell’immagine, perdendo l’equilibrio che derivava dall’ignoranza di sé. Questo succede perché lo scrittore, essendo parassita, vive ai margini della società, quindi guarda la realtà da un punto di vista elevato, fornendone una visione nuova, che può risultare sconvolgente. Questo rende lo scrittore una coscienza inquieta, la sua opera diventa strumento di coscienza. Il lettore deve liberamente acquisire una consapevolezza nuova a partire dall’opera. L’inquietudine nuova contenuta nell’opera spinge il lettore ad assumere una coscienza nuova sulla società in cui vive. L’opera deve spingere ad agire nel mondo. Questo avviene solamente in una società ideale nella quale tuti i cittadini cooperano per il bene comune. Che cos’è scrivere? Sartre individua una differenza strutturale tra letteratura e arti figurative/musicali. Queste ultime utilizzano gli ingredienti del linguaggio come se fossero delle cose. I suoni stanno a significare se stessi. Non tutta la letteratura è diversa: la poesia è come la pittura e musica, utilizza le parole come se fossero cose, il poeta tende a scegliere le parole che usa soprattutto per costruire bellezza fonica, il senso di una poesia sta tutto nella consistenza sonora delle parole. La prosa letteratura è tutta un’altra cosa: usano le parole per quello per cui vanno usate, ossia un sistema di segni. Le parole stanno lì perché significano qualcosa. È possibile raccontare i significati di un romanzo senza ricordarselo per intero. Sartre sta dalla parte dei significati, ha sempre scritto prosa. Sterilmente, musica e poesia puntano sulla forma esteriore, la prosa veicola dei significati attraverso i quali si svolge l’appello politico al lettore. Pierre Bourdieu (1930-2002) Uno dei sociologi più importanti del XX secolo. Personaggio molto discusso e in vista. Francese di nascita, è l’erede di Sartre in quanto presenza nel mondo sociale e politico francese e in quanto intellettuale che parlava d’attualità, pur non essendo uno specialista di tutte le materie da lui trattate. Spesso assunse posizioni molto polemiche rispetto al “mainstream” del tempo, che andavano contro le istituzioni, un intellettuale “anti-sistema”. Gran punto di riferimento per i giovani del ’68. È stato un intellettuale proveniente da una famiglia di ferrovieri, che vivevano in una campagna intorno a Lille, nord-ovest della Francia, luogo periferico dal punto di vista sociale. Fece un’ottima carriera scolastica e altrettanto fece con la carriera accademica. Non è mai stato un critico letterario però si occupò molto di cultura e gusti culturali. Coniò il termine “campo culturale”: la società era divisa in settori. Il metodo di lavoro di Bourdieu è più “nuovo”, si formò infatti negli anni 50/60, quando il metodo stava cambiando profondamente. Mix di strutturalismo e marxismo. Lo strutturalismo è di origine sovietica, proviene dal metodo formalista di alcuni autori russi degli anni 20 e 30. Si diffuse innanzitutto in Francia negli anni post bellici. È un metodo di lavoro teso a svecchiare il modo in cui si faceva ricerca nelle discipline umanistiche. Uno dei loro obiettivi era fornire un metodo che portasse le discipline a un grado di scientificità paragonabile a quello delle “scienze dure” (matematica, fisica, …). L’escamotage principale fu considerare ogni oggetto di studio come delle strutture, andavo considerati come se fossero un tutt’uno nel quale ogni elemento era strettamente connesso con gli altri, e al mutare di uno non poteva che mutare tutta la struttura d’insieme. Lo strutturalismo abolisce ogni forma d’interesse per tutto ciò che sta all’infuori della struttura (al contrario della critica sociologica). Approccio super specializzato, scientifico, antistoricista e sincronico. È inoltre un approccio anti-sartriano, lo strutturalismo cerca l’oggettività, non la percezione del singolo. Per Bourdieu lo strutturalismo ha significato lavorare sui metodi sociologici con un approccio sincronico, vuole afferrare il “quid” o senso profondo che si nasconde dietro lo stato di cose, lo scheletro che caratterizza una data situazione. 12Lo strutturalismo “sbatte” con il marxismo e il materialismo, in particolare con la spiegazione tra struttura e sovrastruttura, accogliendo l’idea che leggendo in profondità sociologicamente una certa zona del reale, si arriva a riconoscere che la struttura economica è il motore di tutti gli altri aspetti degli agenti sociali (l’individuo). Bourdieu recupera dal marxismo anche il concetto di “capitale”. Bourdieu accoglie questo elemento ma lo applica a tutto quanto. Esiste un capitale economico, ossia il singolo agente sociale, un capitale relazionale (capitale sociale), un capitale culturale e un capitale che è la quintessenza degli altri capitali, ossia il capitale simbolico (il carisma di un singolo), ciò che caratterizza la nostra influenza sul piano sociale. L’altro elemento che Bourdieu recupera è l’ideologia, dando per scontato che la classe dominante imponga nella società la propria ideologia e l’obiettivo dei lavori di Bourdieu è quello di svelare dei meccanismi di dominio che caratterizzano i rapporti sociali. Bourdieu spiega ne “La distinzione. Critica sociale del gusto” che le classi sociali esistono ancora, e sono terminati nel caratterizzare la vita del singolo. A Bourdieu sta a cuore la questione della scuola. Lavora infatti nel momento in cui la scuola inizia a diventare scuola di massa. Osserva che si stava dando un’inflazione (diminuzione del valore) dei titoli scolastici. Nel contesto della scuola di massa serve sempre un titolo maggiore rispetto a prima per raggiungere una data posizione. Nel medioevo si ha avuto lo stesso processo con i titoli di nobiltà. Per Bourdieu, dietro la apparente democratizzazione del sistema scolastico, si nasconde una gerarchia socio-economica e culturale molto difficile da scalfire (Bourdieu ne è l’esempio più lampante), tramite il cosiddetto “ascensore sociale”. La scuola, nel pensare comune, è il luogo di neutralità, nel quale esiste l’integrazione, nel quale non esistono privilegi. Bourdieu invece non parla di niente di più ingiusto di una valutazione neutra. La scuola è espressione della classe dominante, luogo di formazione dell’ideologia della classe dominante stessa sotto forma di gusto legittimo. La scuola scambia per valore ciò che è eredità socio-culturale. L’habitus per Bourdieu assomiglia all’ideologia. L’habitus è l’insieme delle idee, dei comportamenti che abbiamo per il fatto di appartenente d una certa classe sociale. L’habitus è la struttura profonda della nostra mente, il motore delle nostre azioni, l’habitus è “struttura strutturata e struttura strutturante”. - Struttura strutturata: struttura profonda della nostra mente, strutturata dalle esperienze che abbiamo fatto per essere nati dove siamo nati. - Struttura strutturante: motore delle nostre azioni, agiamo, diciamo, pensiamo. L’habitus è uno dei concetti fondamentali de “La distinzione. Critica sociale del gusto”, libro del 1979 (Bourdieu ci lavora tra il 62 e la fine degli anni 60). È il frutto di 1200 interviste fatte sulle abitudini culturali e sui gusti dei francesi, svolte a casa degli intervistati, affinché lui potesse guardarsi intorno. La “Critica sociale del gusto" (giudizio con la traduzione esatta) svela l’idolo polemico di Bourdieu, scritto contro un filosofo della seconda metà del 700, Immanuel Kant, fondatore dell’estetica moderna in ambito occidentale. Nel 1790 Kant pubblica “La critica del giudizio”, dove Kant dice che il gusto individuale rimanda alle intuizioni del soggetto in relazione ad un dato oggetto artistico. La percezione del bello è disinteressata, si da nel singolo come esperienza di bellezza. Per Bourdieu ogni opzione di gusto è opzione di gusto di un agente sociale, legata più o meno direttamente alle sue condizioni economiche. Quelle che consideriamo doti naturali o merito, non sono nient’altro che una complessa costruzione sociale. Per Bourdieu c’è sempre nell’agente sociale un’idea, una volontà di ottenere qualcosa attraverso una data reazione. L’obiettivo degli agenti sociali è distinguersi, valorizzando noi stessi, migliorando la nostra immagine sociale avendo comportamenti che crediamo possano giovare a noi stessi. Al tempo c’era l’idea di esistenza di gusti legittimi che si fingeva di avere, per evitare una distinzione sociale. Bourdieu individua tre gusti corrispondenti a tre classi sociali: - Gusto legittimo, classe alta, borghesia - Gusto medio, piccola borghesia - Gusto popolare, classe popolare Bourdieu chiarisce come il capitale culturale sia diviso in due capitali: 13
Questa è solo un’anteprima: 12 pagine mostrate su 61 totali. Registrati e scarica gratis il documento.
Per approfondire questo argomento:
Altri appunti correlati:
Forse potrebbe interessarti:
Filosofia del diritto
PAROLE CHIAVE:
Letteratura italianacritica
filosofia
Milano
Pasolini
BOOM ECONOMICO
sottoproletariato
turchetta